12 Febbraio 2024

L’Italia condannata per violazione dell’art. 3 Convenzione Edu a causa della inadeguatezza delle cure sanitarie in carcere (nota a Corte europea dei diritti dell’Uomo, 9 novembre 2023, Riela c. Italia, 17378/20)

A cura di Avvocati Pina Di Credico e Roberto Ghini, con la collaborazione della Dottoressa Martina Greppi

SOMMARIO: 1. La vicenda – 2. La presunta violazione del diritto alla vita – 3. L’ammissibilità del ricorso per violazione del divieto di tortura – 4. L’obbligo di preservare la salute e il benessere dei detenuti – 5. Alcune riflessioni sull’indipendenza del consulente tecnico – 6. Conclusioni

 

  1. La vicenda

La vicenda giudiziaria sottoposta all’attenzione della Corte di Strasburgo e conclusasi recentemente con una pronuncia favorevole per il ricorrente, vede come protagonista il Sig. F. R., detenuto ininterrottamente dal 1998, ossia da ben 25 anni, in quanto condannato alla pena dell’ergastolo perché ritenuto soggetto di particolare caratura criminale avendo commesso omicidi quale esponente di una associazione per delinquere di matrice mafiosa.

La pronuncia in commento risulta di particolare importanza in quanto affronta uno dei temi maggiormente dibattuti in Italia e nel contesto europeo della tutela dei Diritti Dell’Uomo afferente la necessità di approntare, in regime detentivo, cure mediche adeguate e di pari livello rispetto alle cure fornite in ambito ospedaliero dal sistema sanitario nazionale.

Per comprendere appieno la rilevanza della questione, occorre, prima di tutto, delineare i fatti salienti che preludono alla decisione sopraggiunta il 9 novembre 2023.

La domanda di adozione di una misura provvisoria urgente, “introdotta”, ai sensi dell’Art. 39  Rule, dinanzi la CEDU il 27 aprile 2020, in piena emergenza Covid-19 da parte degli estensori della presente nota, era stata preceduta, nel corso dei due anni antecedenti, da numerose istanze che il detenuto aveva avanzato, per mezzo dei suoi difensori, per il differimento della pena ovvero di sostituzione della stessa con la detenzione domiciliare.

Si rilevava, dinanzi ai Tribunali “interni” investiti della delicata questione, come le condizioni di salute del detenuto fossero del tutto incompatibili con la detenzione carceraria a cagione delle plurime patologie ingraveascenti di cui il Riela soffriva che necessitavano di una presa in carico multidisciplinare da parte di una equipe specializzata che ovviamente il reparto sanitario del carcere di Napoli Secondigliano, ove risultava e risulta tuttora recluso, non poteva garantire.

Nello specifico, il ricorrente soffriva di una grave sindrome dell’apnea ostruttiva del sonno, obesità, diabete di tipo 2 e cardiopatia ipertensiva, tutte patologie che rendevano necessario, oltre al monitoraggio costante in ambiente ospedaliero con professionisti specializzati (anche e soprattutto in ragione dell’epidemia in corso), l’impiego di un particolare strumento salvavita ossia un sistema di ventilazione necessario a consentire al Riela di respirare bene e soprattutto durante la notte denominato CPAP.

Nel marzo 2020, a seguito dell’ennesimo rigetto, da parte del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, dell’istanza di differimento della pena ovvero di detenzione domiciliare, la Suprema Corte di Cassazione accoglieva il ricorso dei difensori annullando con rinvio la decisione del TDS di Napoli affinché venissero adeguatamente valutate le condizioni del detenuto psicofisiche del detenuto.

Il contestuale insorgere dell’emergenza COVID-19 rendeva ancor più impellente la necessità di una pronta fissazione di udienza di rinvio da parte del Tribunale di Sorveglianza affinché venissero adeguatamente valutate le condizioni fisiche del detenuto e approntate soluzioni necessarie a salvaguardare la sua precaria condizione di salute.

Proprio perchè, dopo due mesi dalla pronuncia favorevole della Suprema Corte di Cassazione, il TDS di Napoli non si determinava a fissare alcuna udienza, i difensori di Francesco Riela decidevano che non era possibile attendere oltre con il rischio che il detenuto potesse perdere la vita se avesse contratto il coronavirus.

Pertanto veniva “introdotto” dinanzi la CEDU un ricorso con la procedura d’urgenza prevista dall’art. 39 Rule lamentando la violazione degli artt. 2, 3 e 5CEDU.

In data 29 aprile 2020, la Corte investiva il Governo Italiano della richiesta avanzata dal ricorrente chiedendo immediate delucidazioni sulla questione lamentata dal detenuto.

Le richieste miravano ad ottenere le seguenti informazioni: quale fosse il “corrente stato di salute” del detenuto, se avesse ricevuto e ricevesse le “adeguate cure mediche”, se avesse “accesso ai dispositivi e agli esami specialistici di cui ai referti indicati” e, soprattutto, se fossero state prese in considerazione da parte delle autorità locali “misure alternative alla detenzione”.

Il Governo Italiano sosteneva la piena compatibilità delle condizioni di salute del Riela con  il regime detentivo del carcere di Napoli Secondigliano ed il corretto e tempestivo approccio terapeutico ed assistenziale. I difensori sostenevano strenuamente, soprattutto avvalorando le proprie considerazioni con tre perizie mediche di professionisti esperti nella cura delle patologie che affliggono il detenuto, che le argomentazioni del Governo necessitavano di una verifica da parte di professionista “esperto indipendente” ossia completamente estraneo al sistema penitenziario in primis ed a tutto l’apparato amministrativo statale sollecitandone il conferimento dell’incarico.

Nel maggio 2020 la Corte EDU accoglieva tale richiesta e incaricava il Governo di provvedere alla designazione del professionista, specificando come il ricorrente dovesse essere immediatamente esaminato da un esperto medico, rigorosamente indipendente dal sistema penitenziario, che rispondesse ai quesiti sottopostigli in punto di condizioni psicofisiche del detenuto e compatibilità delle stesse con le cure approntate in carcere.

Nel frattempo, sul fronte interno, nonostante perpetrasse la mancanza di follow-up e cure adeguate oltre alla fornitura del ventilatore salvavita CPAP il Tribunale di Napoli rigettava per ben due volte la richiesta di prosecuzione della esecuzione nelle forme della detenzione domiciliare.

 

  1. La presunta violazione del diritto alla vita

La prima violazione contestata dal ricorrente afferisce il mancato ossequio dei dettami dell’art. 2 CEDU, il cui disposto costituisce un presidio per la tutela del diritto alla vita, in forza della delicata situazione di rischio a cui la pandemia aveva esposto soggetti già di per sé vulnerabili. La giurisprudenza della Corte EDU sul punto ha precisato, in molteplici occasioni, che, affinché si possa ritenere violato il disposto dell’art. 2 della Convenzione, non è necessario il configurarsi dell’evento-morte essendo a tal fine sufficiente la concreta esposizione al pericolo di perdere la vita (Fenech c. Malta, n.19090/20, 1 marzo 2022, in cui sono stati riassunti e applicati i principi rilevanti riguardanti l’applicabilità dell’art. 2 CEDU in relazione ai casi di COVID-19).

Con la sentenza in commento la CEDU ha ritenuto che non vi fosse una violazione dell’art. 2 della Convenzione con l’argomentazione secondo la quale, valorizzando la consulenza del medico legale designato dal Governo Italiano, non era stato acclarato che il Riela avesse corso rischi effettivi di perdere la vita nel carcere di Napoli Secondigliano ed il ricorrente non aveva fornito alcuna prova sufficiente del fatto che le autorità nazionali non fossero riuscite a proteggerlo da un eventuale contagio da COVID-19, con possibili ripercussioni per la sua incolumità.

  1. L’ammissibilità del ricorso.

A tutt’altro esito è giunta, invece, la censura per la contestata violazione dell’art. 3 CEDU. Come è certamente noto tra gli addetti al settore, le condizioni contenute nel testo dell’art. 35 CEDU richiedono espressamente che la Corte venga adita solo dopo l’esaurimento di tutte le c.d. “vie di ricorso interne”. È proprio appellandosi a questo criterio processualistico internazionale che il Governo italiano ha sollevato l’eccezione di inammissibilità del ricorso essendo stato introdotto in pendenza del ricorso dinanzi la Suprema Corte di Cassazione.

Il ricorrente aveva precisato nel formulario di ricorso di avere adito la CEDU prima dell’esaurimento di tutte le vie di ricorso interne, dapprima con due procedure d’urgenza e successivamente con un ricorso “ordinario” per due ordini di ragioni.

In primis a cagione dei tempi di fissazione dell’udienza di trattazione dinanzi la Suprema Corte di Cassazione ritenuti troppo lunghi se parametrati alle condizioni di salute del detenuto.

In secondo luogo per non incorrere nel rischio di declaratoria di “inammissibilità” del ricorso che, come noto  agli addetti del settore, avrebbe determinato la decorrenza, all’epoca semestrale, per la proposizione del ricorso alla CEDU, non dalla decisione della Suprema Corte di Cassazione, ma dalla decisione del Tribunale di Sorveglianza salvo il principio “dell’eccessivo formalismo”.

Gli organi giudiziari degli Stati membri, nell’interpretazione della legge processuale: “devono evitare gli eccessi di formalismo, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi, consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel diritto di accesso ad un tribunale previsto e garantito dall’art. 6 della CEDU del 1950” (Corte EDU, II sezione, 28.6.2005, Zednìk c. Repubblica Ceca, in causa 74328/01; Corte EDU, I sez., 21.2.2008, Koskina c. Grecia, in causa 2602/06; e Corte EDU, I sez., 24.4.2008. Kemp c. Granducato di Lussemburgo, in causa 17140/05).

Il Governo, di contro, sosteneva che la proposizione del ricorso in pendenza della fissazione dell’udienza dinanzi la Suprema Corte di Cassazione era determinata dalla circostanza che il Riela non era certo dell’esito favorevole della pronuncia di legittimità. “È evidente, infatti, che il presente ricorso è stato proposto prima dell’esaurimento delle vie di ricorso interne, come, di fatto, ammesso dal ricorrente, essendo evidente che un ricorso non può ritenersi non efficace solo perché la parte non è sicura suo esito favorevole”.

La Corte ha accolto le argomentazioni della difesa sul punto ribadendo il principio secondo il quale non può essere dichiarata l’irricevibilità per “mancato esaurimento delle vie di ricorso interne” perché “La CEDU tollera che l’ultimo grado delle vie di ricorso interne venga raggiunto dopo il deposito del ricorso, ma prima che essa sia chiamata a pronunciarsi sulla sua ammissibilità” (Affaire Molla Sali c. Grèce § 90.  La Courrelèvequ’en l’espèce, la requérante l’a saisie le 5 mars 2014. L’arrêt de la Cour de cassation qui a faitdroit à l’action dessœursdu mari de la requérante et renvoyé l’affaire devant la courd’appel de Thrace a étérendu le 7 octobre 2013. Le 15 décembre 2015, cettedernière a statuédans le mêmesensque la Cour de cassation. Saisie par la requérante le 8 février 2016, la Cour de cassation a rejeté le pourvoi de celle-ci le 6 avril 2017. La Courestimeque l’exception de non-épuisement a, en tout état de cause, perdu de sa pertinence car, de toutemanière, elle tolèrequele dernieréchelondesrecoursinternessoitatteintaprès le dépôt de la requête, mais avantqu’elle ne soitappelée à se prononcer sur la recevabilité de celle-ci (Karoussiotis c. Portugal, no 23205/08, § 57, 1er février 2011).

Suggestiva poi la tesi del Governo Italiano sostenuta per argomentare la declaratoria di inammissibilità afferente il potenziale esperimento di due rimedi interni di carattere civilistico finalizzati ad ottenere un risarcimento del danno ex art. 2043 e 2051 c.c. che il Riela avrebbe potuto proporre in luogo del ricorso CEDU ovvero propedeutico allo stesso in caso di rigetto.

I rimedi ex artt. 2043 e 2051 c.c. proposti in alternativa dal Governo peccavano di effettive ragioni a sostegno della loro applicabilità e ciò per una serie di fattori. Si consideri, infatti, che, da un lato, l’azione di risarcimento danni contenuta nel Codice Civile nostrano richiede che sia il ricorrente a provare l’esistenza del fatto illecito, il dolo o la colpa dell’amministrazione e i danni subiti, aspetti che nel loro complesso, tuttavia, rappresentano un onere eccessivo per la vittima del danno medesimo; dunque, non solo l’art. 2043 c.c. si rivela, in tal senso, un ricorso inefficace, ma al contempo il Governo non è stato in grado di produrre alcun esempio che dimostri che tale azione sia stata intentata con successo in precedenti circostanze simili. Dall’altro, il rimando all’art. 2051 c.c., che disciplina la responsabilità per i danni cagionati alle cose in propria custodia, non veniva supportata con alcuna motivazione circa la sua applicabilità nel caso di specie. In altre parole, mutatis mutandis: la Corte non ha rinvenuto alcun motivo per discostarsi dalle conclusioni a cui era giunta in sentenze addietro (Sy c. Italia, n.11791/20, 24 gennaio 2022).

Si potrebbe ulteriormente obiettare che un’azione esclusivamente risarcitoria, come proposta dal Governo, non potrebbe essere considerata sufficiente, dal momento che non possiede un effetto preventivo, nel senso di inibitorio del protrarsi della violazione dedotta, dunque inidoneo a consentire ai detenuti di ottenere un miglioramento delle materiali condizioni detentive. Prevenzione e compensazione dovrebbero coesistere in modo complementare: laddove venga accertata l’effettiva lesione del diritto, la miglior riparazione possibile dovrebbe consistere, in primis, nella cessazione della condotta lesiva medesima e solo in un secondo momento ricorrere per ottenere un’adeguata riparazione (FIORENTIN F., Nuovi rimedi risarcitori della detenzione contraria all’art. 3 CEDU: le lacune della disciplina e le interpretazioni controverse, con riferimento a Torreggiani e altri c. Italia, nn.4357/09, 46882/09, 55400/09; 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10, 8 gennaio 2013).

Traendo le prime conclusioni, il quadro delineatosi dinanzi alla Corte ha condotto a un giudizio di rigetto dell’eccezione sollevata dal Governo e una conseguente ricevibilità del ricorso, ritenuto indubbiamente fondato, nel pieno rispetto dei parametri contenuti nell’art. 35 CEDU.

  1. L’obbligo di preservare la salute e il benessere dei detenuti

L’art. 3 CEDU rientra senza dubbio tra le conquiste più rilevanti dell’età moderna, un vero e proprio pilastro dello Stato democratico, norma cardine posta a tutela dell’integrità psico-fisica dell’individuo e, in quanto tale, opera in maniera assoluta, senza che sia ammissibile né concepibile alcuna deroga o eccezione (cosa che, paradossalmente, non può dirsi del diritto alla vita di cui al precedente art. 2).

Non si cada nell’errore di evocare alla mente uno scenario, per così dire, “arcaico” o “tradizionale” davanti alla scelta lessicale da parte del legislatore del termine “tortura”: tale nozione, infatti, si presta a ricomprendere un ben più ampio novero di trattamenti, ossia tutti quelli che possano comportare il degrado della condizione dell’uomo e capaci di provocare sofferenze gravi e crudeli. Il campo di applicazione della norma, dunque, è ben più ampio di quanto si possa – a torto e semplicisticamente – ritenere ed è stato riconosciuto nei casi più disparati, tutti accomunati da un medesimo fil rouge rappresentato dal rispetto della dignità e integrità dell’essere umano, specialmente se in vinculis (COLELLA A., La giurisprudenza di Strasburgo 2011: il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti – art. 3 CEDU.

Che la salvaguardia della salute e del benessere dei detenuti e il conseguente obbligo di cure mediche adeguate fosse da sussumere nel suddetto divieto di tortura era già stato in più occasioni chiarito dalla Corte (ex multis, Xiros c. Grecia, n.1033/07, 9 settembre 2010; Kupzczak c. Polonia, n.2627/09, 25 gennaio 2010; Safak v. Turchia, n.38879/03, 27 settembre 2011; Demian c. Romania, n.5614/05, 27 settembre 2011; per un esaustivo quadro d’insieme della giurisprudenza della Corte europea nella materia de qua, v. C. Menegoni, Il diritto alla salute dei detenuti nel contesto della cedu, in Dir. Pen. e proc., 2023, n. 4, pag. 585 ss.). Si rendeva necessario, tuttavia, identificare una serie di parametri della sussistenza o meno di tale violazione (Rooman c. Belgio, n.18052, 31 gennaio 2019; Contradac. Italia (n.2), n.7509/08, 11 febbraio 2014), per cui serviva accertare nello specifico:

  1. la condizione del detenuto e l’effetto su quest’ultimo delle modalità della sua detenzione;
  2. la qualità delle cure fornite;
  3. se il ricorrente debba o meno continuare a essere detenuto a causa del suo stato di salute.

Comparando il caso in esame con suddetti parametri, dalla già menzionata relazione del consulente tecnico emergevano innegabili carenze nel trattamento sanitario, come ritardi nelle cure che, sebbene non mettessero in pericolo la vita stessa (motivo che ha portato alla dichiarazione di inammissibilità della prima censura) e nel loro complesso risultassero compatibili con lo stato detentivo, rappresentavano, comunque, motivo di preoccupazione e disagio: in un contesto storico drammatico e delicato come quello dell’emergenza COVID-19, si richiedeva più che mai la pronta predisposizione per scongiurare qualsivoglia esito infausto, ragion per cui la mancata calibrazione di una macchina CPAP che la rendeva di fatto inutilizzabile dal detenuto e la lunga attesa per gli esami endoscopici e per l’intervento per la fistola contribuivano ad innalzare una percentuale di rischio già di per sé tragicamente alta.

Secondo la dottrina, una simile modalità di violazione del dispositivo ex art. 3 CEDU non rientrerebbe in quelle violazioni classificabili come “dirette”, consistenti nella violazione dei generali obblighi negativi di astensione dal porre in essere condotte vietate dalla Convenzione; pare più corretto, in questo caso, parlare di ill-treatment, ossia della violazione di quegli obblighi di protezione positivi che dovrebbero essere messi in atto da parte dello Stato (PELAZZA M., Sugli obblighi di prevenzione e di repressione di tortura e trattamenti inumani e degradanti: una poco conosciuta sentenza di condanna da parte dell’Italia da parte della Corte EDU, nota a sentenza M. e altri c. Italia e Bulgaria, 31 luglio 2012). Seguendo questa impostazione, agli occhi della Corte sarà legittimamente considerata vittima di ill-treatments qualunque “individuo vulnerabile” (ai sensi della sopra menzionata giurisprudenza di Strasburgo, che impiega una formula di chiusura volutamente generica e di ampia portata, quale, appunto, other vulnerables individuals) che ravvisi di aver subito un livello anche minimo di trattamenti degradanti della propria persona. In sostanza, ciò che si richiede al Governo nell’adempiere al rispetto dell’art. 3 CEDU è quello di operare un controllo concreto circa la prevedibilità del danno e la possibilità di intervenire tempestivamente e concretamente per impedire il suo verificarsi (Milanovic c. Serbia, n.44614/07, 14 dicembre 2010).

 

  1. Alcune riflessioni sull’indipendenza dell’esperto. Uno psichiatra, già a lungo direttore sanitario di un ospedale psichiatrico giudiziario, aveva le caratteristiche di indipendenza, competenza ed imparzialità richieste per valutare le problematiche del ricorrente?

Come già brevemente esposto, la CEDU imponeva al Governo, con decisione interlocutoria, la nomina di un esperto indipendente al fine di valutare le condizioni di salute del ricorrente. Tuttavia, la nomina governativa cadeva su un sanitario che, ad avviso della difesa, non aveva le richieste caratteristiche di indipendenza competenza ed imparzialità. Sfuggiva la logica della nomina di un medico-psichiatra per problematiche aventi natura prevalentemente organica (e nello specifico, in primis, cardiorespiratoria). Era apparsa poi non opportuna – sotto il profilo della effettiva imparzialità – che la nomina avesse riguardato un sanitario che, a lungo, aveva svolto il ruolo di direttore sanitario di una struttura carceraria (nella specie un ospedale psichiatrico giudiziario) oltretutto sito nel medesimo territorio ove era detenuto il ricorrente.

È universalmente assodato che l’indipendenza (a cui allude anche il nostro Codice di Procedura Penale) sia da intendere primariamente in un’ottica sostanziale e non meramente in senso formale. La sostanzialità, nel presente caso, era ragionevolmente messa in discussione dai difensori del ricorrente, da un lato, per via del soggetto che, a quanto risultava, aveva proceduto ad individuare il medico peritale, ossia la direttrice del carcere, colei che, in altre parole, aveva la diretta responsabilità delle condizioni in cui versava il detenuto; dall’altra, per il precedente impiego del consulente in vesti dirigenziali dell’(all’epoca) Ospedale Psichiatrico Giudiziario territorialmente prossimo al luogo di detenzione, dove la medesima direttrice aveva ai tempi prestato attività lavorativa. In secondo luogo, come detto, neppure la scelta della tipologia dell’esperto, psichiatra e medico legale, appariva consona in relazione ad un paziente che lamentava patologie respiratorie e cardiovascolari.

Si menzioni, da ultimo, che l’esame da parte del consulente di nomina governativa avveniva in assenza del medico privato del detenuto, il quale, nel corso dei propri accertamenti, era giunto alla conclusione contraria, ossia di uno stato di salute del tutto incompatibile con il regime detentivo. Ciò comportava, a ben vedere, la conseguente contestazione da parte dei difensori del ricorrente di una serie di violazioni dei principi basilari del contraddittorio, quali la parità delle armi, ai sensi degli artt. 34 e 38 CEDU, e dunque una lesione ai fondamenti del giusto processo stesso, ex art. 6 CEDU.

Tuttavia, i timori sopra esposti venivano smentiti dalla Corte, che affermava che la semplice appartenenza a un istituto medico pubblico non potesse giustificare di per sé tale timore (Hamzagly c. Croazia, n.68437/13, 9 dicembre 2021 e Letinyny c. Croazia, n.7183/11, 3 maggio 2016), avvalorato dal fatto per cui il consulente in questione non avesse mai avuto alcun legame personale o professionale con l’amministrazione penitenziaria e che la direttrice fosse rimasta estranea alla procedura di selezione.

Si è trattato, quindi, di un difetto di allegazione che appare, in realtà, difficilmente superabile proprio in ragione di un dato che spesso appare più formale che sostanziale: i sanitari all’interno degli istituti di pena – come noto – dipendono formalmente dalle locali aziende sanitarie e non, invece, dalle amministrazioni penitenziarie.

 

  1. Conclusioni

Il riconoscimento da parte della Corte della fondatezza nel merito del ricorso e la conseguente condanna nei confronti dello Stato convenuto racchiude in sé un elemento di fortissimo impatto: ogni ingiustificato ritardo nella somministrazione di cure, nella esecuzione di esami, nel trattamento di patologie costituisce, di per sé, un trattamento non accettabile in uno Stato che voglia dirsi democratico.

Bisogna ben intendere, tuttavia, che non tutte le presunte violazioni dell’integrità psico-fisica dell’individuo danno luogo ad altrettante violazioni dell’art. 3 CEDU.

La Corte richiede, infatti, un coefficiente minimo di gravità, una soglia individuata caso per caso, in relazione alle circostanze oggettive del fatto e alle qualità soggettive della vittima (Nechiporuc e Yonkalo c. Ucraina, n.42310/04, 21 aprile 2011).

Non si cada però nell’errore di ritenere un male, per quanto minimo, come CASE OF RIELA v. ITALY ammissibile: «accettare il male minore è il modo migliore per convincere ad accettare il male tout court»(ARENDT H., La banalità del male).

 

Per visualizzare il testo della sentenza: https://osep.jus.unipi.it/wp-content/uploads/2024/02/CASE-OF-RIELA-v.-ITALY.pdf

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